WARCHILD OLTRE L'ASCOLTO: LA SVOLTA
DEL MENESTRELLO
di Aldo Tagliaferro
Superato lo scoglio di Passion Play, penserete, ora la strada non può che essere in
discesa. Sbagliato: "War Child" è un disco estremamente complicato. Per due motivi: da un lato
serba ancora i germi di quella fervida stagione coincisa con i due concept album (del resto nei "Chateau D’Isaster
Tapes" c’erano già Solitaire e Skatin’ Away), dall’altro Anderson inizia un’era nuova che possiamo
identificare nella figura del menestrello, che d’ora in poi Ian - disincantato, stanco delle polemiche, ma anche
narciso e a modo suo ironico - impersonerà almeno per tutti gli anni Settanta, indossando ora i panni agresti
di "Songs from the Wood", ora quelli rinascimentali di "Minstrel".
Cerchiamo di essere più chiari: in questo album c’è tutta la ricchezza allegorica
dei due lavori precedenti, ma c’è anche un nuovo livello di comunicazione del quale Anderson prende ora
coscienza e che prima mancava. Ian non si sente più un autore che ha semplicemente qualcosa da esprimere,
sia perché difficilmente sarebbe potuto andare oltre quella escalation che lo aveva condotto a Passion Play,
sia perché è conscio che qualsiasi messaggio (anche il più semplice) rischia di non essere
colto o - peggio ancora - di essere dileggiato, malinteso o rifiutato dai critici. Che fa allora Anderson? Inventa
una voce narrante "terza", fa il buffone di corte, quello che formalmente canta a comando ma in realtà
castiga i costumi con canzoni apparentemente innocue. E’ una figura classica in letteratura sin dai tempi antichi
e molto presente in Inghilterra dal periodo elisabettiano: il "fool" è un personaggio centrale
in molte opere di Shakespeare, è in qualche modo la coscienza dell’autore, della piazza, dell’opinione pubblica.
Anderson compie questo passaggio in modo plateale, eppure la critica pare non accorgersene e saluta il "nuovo
corso" dei Jethro pensando di aver convinto Anderson ad abbandonare le lunghe suite. E dire che nelle note
dell’epoca della Chrysalis distribuite alla stampa si parlava di "War Child" come del "quarto concept
album" dei Jethro, includendo in questo modo anche Aqualung!
Ebbene, "War Child" è invece una lunga suite nella quale sono stati semplicemente
potati quei "ponti" che collegavano le varie parti di "Passion" e "Thick". Ma c’è
grande unità di intenti, di visione e di sonorità, nonostante i pezzi siano stati scritti in un arco
di tempo piuttosto lungo (Two Fingers era in gestazione dal 1971...).
Con ciò non intendo esaltare acriticamente l’album o sostenere che Anderson non abbia
commesso errori (lo sono stati sia il "ritiro" dalle scene minacciato nel ‘73 sia l’espatrio in Svizzera
per non pagare le tasse), ma questo periodo segna il passaggio definitivo e irreversibile dall’Anderson più
vero, più naif e vitale al musicista-manager scaltro e sempre padrone della situazione. Fin troppo. Anderson
diventa il re travestito da buffone che tasta il polso al popolo; è come l’Enrico V shakespeariano che,
vestito da semplice soldato, passa tra le tende delle truppe la notte prima della battaglia di Agincourt. O come
il Duca di Vienna (Misura per Misura) che si traveste da frate anziché lasciare la città per osservare
come Angelo lo sostituisca indegnamente.
Ma il "pied piper" non è sovrano mite: Ian Scott Anderson diviene d’ora in
poi un colossale travestimento, dolorosamente conscio che tutto è finzione, soprattutto nello show-business.
E non tornerà mai più indietro: i suoi concerti saranno destinati ad essere sempre più "professionali",
impeccabili, ma scritti a tavolino. I Jethro Tull incarnano una grandiosa recita. Certo, fatta di talento, di grandi
dischi, di intuizioni, ma sempre velate dal filtro acido del menestrello disincantato. E sarà sempre maggiore
lo iato tra la critica, incapace di capire l’operazione intrapresa da Anderson e di riconoscerne la rigorosa coerenza
compositiva, e il leader della band, ormai incamminato per un sentiero solitario, orgoglioso e a volte persino
inconcludente.
L’adeguamento iconografico è immediato: i costumi di scena diventano da buffone cortigiano,
cosa che la copertina di "Minstrel" renderà addirittura palese; e a proposito di copertina, qui
per la prima volta Anderson appare da solo in fotografia (in "Aqualung" e "Living in the Past"
era solo stilizzato o disegnato), mentre il resto della band si perde nel retro tra le storie narrate dal menestrello.
E proprio attraverso questo menestrello Anderson potrà esercitare la propria orgogliosa
indipendenza mentale e fare commenti di volta in volta satirici, comici o profondi come tanti "fools"
shakespeariani, dal bastardo Falconbridge a Falstaff fino - paradossalmente - ad Amleto (qui mi fermo, perché
su Anderson/Amleto ci vorrebbe un libro...). Ecco allora le bordate alle istituzioni (Queen and Country), alla
demenza della guerra (War Child), alla vacuità dell’apparire (Sea Lion), alla religione (Back Door Angels);
ma la sottile vendetta del menestrello sta nel fatto che tutti i testi si possono leggere anche come autobiografici
e mirati all’indirizzo dei critici.
Only Solitaire è paradigmatica in questo senso, eppure è in Back Door Angels
che Ian indica il suo "testamento": "think I’ll sit down invent some fool, some grand court jester",
ovvero la creazione del nuovo buffone da impersonare, quello che di lì a poco sarebbe diventato la musa
di Baker Street, impietoso censore di una società in digregazione.
Detto questo, vanno tenute a mente alcune altre considerazioni. 1) "Warchild" è
il risultato di un progetto unitario, ovvero un film (naufragato ben presto) sulle possibili scelte dopo la morte,
sul bene e il male, sull’indole dell’uomo e il suo comportamento, quindi un "seguito" di Passion Play
(rimando al sito www.cupofwonder.com per chi volesse approfondire la questione in inglese, in particolare sul progetto
cinematografico). 2) Tecnicamente la band è in crescita, perché sperimenta nuove sonorità,
dimostra di avere grande compattezza, in studio come sul palco. 3) Il disco, infine, vende bene e addirittura Bungle
in the Jungle diventa un hit negli Usa, dove forse il testo non viene capito per quel che rappresenta, ma viene
recepito solo come divertita filastrocca.
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PASSION PLAY: GUIDA ALL'ESEGESI (di
Aldo Tagliaferro)
Questa volta ho messo la firma, che solitamente ometto, perché ciò che scrivo
in queste pagine rappresenta il mio personale punto di vista, molto più che in altre circostanze. La materia
è talmente difficile (o, se volete, l'idea che ce ne facciamo è molto complicata, ma in fondo non
è altro che un disco...) che non ho la pretesa che la mia comprensione di A Passion Play sia quella giusta
- posto che ne esista una - né esaustiva.
Ma cominciamo da un dato di fatto. Ovvero: che cos'è un "Passion play", letteralmente un "dramma
della Passione" intesa come la Passione di Gesù Cristo, un "mistero sacro". Se in Italia
questo tipo di rappresentazione non ha un percorso importante, bisogna invece tenere presente che nella storia
medievale inglese ha svolto un ruolo fondamentale sia nell'evoluzione sociale che drammaturgica del Paese e che
ogni ragazzino britannico a scuola riceve quanto meno un'infarinatura sui "Passion plays" e, più
in generale, sui "Miracle plays".
Lascio volentieri l'onere di spiegare storicamente cosa sia un "Miracle play" (che comprende anche i
"Passion" e - secondo alcuni - anche i "Mystery plays") all'Oxford Companion to English Literature
(Oxford, 1953, third edition): "I Miracle plays sono rappresentazioni drammatiche basate sulle storie sacre
o sulle leggendarie vite dei santi. Che fossero evoluzioni di canti fatti in chiesa, o espressioni spontanee del
talento drammatico, è materia che fa ancora discutere i critici. Quello che è probabilmente il più
antico "Miracle play" inglese, "The Harrowing of Hell", è del tardo tredicesimo secolo
o inizio del quattordicesimo, sebbene questi drammi esistessero in Francia molto prima. Raggiunsero la massima
espressione nel 15esimo e 16esimo secolo... Le performance avvenivano sotto il controllo delle corporazioni cittadine,
dal momento che i vari episodi erano generalmente distribuiti tra le categorie artigiane, e avvenivano su palchi
semoventi in forma di processione da un posto ad un altro, oppure nello stesso posto. Le scene potevano variare
fra i 180 e gli 800 versi, ed erano scritte con metrica differente, a volte in rima. I plays venivano eseguiti
per lo più durante le feste, al Corpus Christi, a Natale, Pasqua. Non solo nei plays non scarseggiava lo
humour, ma sono addirittura fondamentali nella storia della drammaturgia per aver introdotto l'azione comica secondaria...".
Il "Passion play", in questo contesto, è un "Miracle" che ha come oggetto la Passione
di Cristo. Un paesino tedesco dell'alta Bavaria - Oberammergau - era particolarmente noto per le rappresentazioni
di "Passion plays", ospitati ogni dieci anni a partire dal 1633. Lo stesso Johann Sebastian Bach, che
Anderson ha dato prova di... conoscere, ha scritto delle "Passioni" (quella di San Giovanni? ?e di San
Matteo) che costituivano la parte centrale della liturgia per la settimana santa. Ora, "A Passion Play"
è proprio una rappresentazione della "passione" trasportata nei tempi moderni: la lunghezza, il
tema (vedremo poi chi sia il protagonista di questa "passione"), l'intermezzo comico, il cambio di scenari
sono tipici di una tradizione antica e che Anderson ha probabilmente ereditato come Dna britannico più di
quanto abbia coscientemente rielaborato.
Se ricordate il modo in cui abbiamo inquadrato i primi lavori dei Jethro, ricorderete una sorta di crescita continua
della complessità narrativa e delle tematiche affrontate: lo scontro generazionale all'interno della famiglia
in Stand Up, le difficoltà della vita di coppia (il secondo stadio del nucleo familiare) in Benefit, l'attacco
deciso all'ipocrisia religiosa in Aqualung e infine la delusione per la grettezza della società contemporanea
e la crisi dei rapporti generazionali in Thick as a Brick. A questo era seguito il tentativo abortito del disco
registrato in Francia - Nightcap #1, per intenderci - dove Anderson non aveva trovato la direzione giusta ma stava
lavorando comunque su un tessuto drammaturgico, dove il teatro è il centro dell'azione. Con "A Passion
Play" la mente dei Jethro non può che compiere l'ultimo gradino della scala iniziata nel '69, e cioè
mettere in discussione la vita dopo la morte. Interrogarsi sulla religione non più come strumento secolare
nelle mani della Chiesa ma come sintesi di fede, di volontà di conoscenza dell'uomo; come necessità,
ancora, di capire quale sia il destino dell'uomo in questo mondo. E per farlo Anderson intraprende un viaggio in
quello successivo - novello Dante - usando come porta d'accesso il teatro, ovvero la rappresentazione a cui conferisce
un carattere forse eccessivamente serio richiamando fin dal titolo la drammaticità dei "plays"
medievali. Parallelamente la musica di Anderson compie un altro salto di qualità: non più canzoni
(come nei primi quattro dischi) e nemmeno un collage di parti musicali abbastanza semplici come in Thick as a Brick,
ma un fluire articolato e apparentemente disomogeneo di melodie. Riconosco che Anderson non è in realtà
mai stato poco "immediato" come in questa circostanza e comprendo di conseguenza chi non riesce a digerire
"A Passion Play" musicalmente (del resto non solo i critici stroncarono il lavoro, ma molti fans abiurarono
i Jethro). Ritengo però che le vette compositive del disco, la ricercatezza nella composizone e il rifiuto
di scelte scontate siano eguagliate in pochi momenti della produzione andersoniana. Vista da un certo punto di
vista, può trattarsi di un esercizio stilistico, ma un esercizio di grande, grandissimo spessore.
Torniamo a noi. E cerchiamo, allora, di capire cosa voglia dire Anderson lungo le due facciate del disco. Le recensioni
dell'epoca, anche quelle inglesi e americane, brancolavano nel buio e questo ci conforta: non è solo un
problema linguistico quello che concerne "A Passion Play", anche se il linguaggio e la costruzione sono
veramente complicati. E colti: nonostante le risposte evasive sempre fornite da Anderson, ci sono in realtà
riferimenti abbastanza precisi alla Divina Commedia e al Libro della Rivelazione dal Nuovo Testamento.
Molto in sintesi: "A Passion Play" è un viaggio di un pellegrino (l'uomo moderno = Gesù
Cristo = Anderson) nelle possibilità di vita dopo la morte (fondamentalmente quelle cristiane - Inferno,
Purgatorio, Paradiso - ma non solo) per capire in realtà quale tipo di fede possa aiutare l'uomo a vivere
meglio la vita terrena; a capire, insomma, cosa siano il Bene e il Male. Il viaggio però - così come
l'intermezzo ludico centrale che fa da contraltare alla trama principale - non fornisce una risposta netta (l'unico
suggerimento pare quello della reincarnazione, del ritorno alla vita). Resta da vedere se Anderson non sia riuscito
a darne una o se la sua volontà finale fosse proprio questa, lasciando trionfare un pessimismo fatalistico,
"tale da far sembrare - scriveva il Toronto Globe and Mail il 31 maggio 1975 - i Black Sabbath un branco di
simpaticoni ottimisti".
Come in ogni rappresentazione che si rispetti, le coordinate dell'opera sono riassunte in? ?un libretto (che corredava
il long-playing originale e si ritrova nell'edizione cd 24 carati), simile agli opuscoli che vengono distribuiti
a teatro con le indicazioni sul cast, le scene, la produzione, durata ecc. Qui veniamo a sapere i nomi degli interpreti
e alcune note biografiche. Non tutte campate in aria: di John Evan si dice che era figlio di una insegnante di
pianoforte (cosa vera), di Anderson viene ricordato il primo soprannome, "Elvoe", altro elemento tratto
dalla realtà. Questi i nomi di scena: Derek Small (che vuol dire piccolo...) per Martin Barre, Ben Rossington
per John Evan, John Tetrad per Barriemore Barlow, Max Quad per Jeffrey Hammond e Mark Ridley per Ian Anderson.
Otto i personaggi indicati (in ordine di apparizione): Ronnie Pilgrim (Max Quad), l'Angelo (Lilly Schnaeffer),
Peter Dejour (Mark Ridley), l'operatore Tv (Derek Small), G. Oddie senior (Ben Rossington) e G. Oddie junior (Lou
Purcell), Lucy (Ronald Pleasant) e Magus Perdé (John Tetrad).
Quattro gli atti. Atto I: Il funerale di Ronnie Pilgrim: una mattina d'inverno al cimitero. Atto II: La Banca della
Memoria: un piccolo ma confortevole teatro con uno schermo cinematografico, la mattina successiva (qui il protagonista,
che intanto ha incontrato Peter Dejour, o Pietro del Giorno, rivede la sua vita). Dopo l'intervallo ecco l'Atto
III: L'ufficio di G. Oddie e figlio, due giorni più tardi. Atto IV: Il salotto di Magus Perdé a mezzanotte
(Ronnie va all'Inferno, vede prima Lucifero e quindi Magus Perdé e termina con la reincarnazione). Non è
molto, ma si comincia in qualche modo ad inquadrare la situazione, che riassumo citando le parole di Jan Voorbij,
il danese che cura il sito dedicato ai testi dei Jethro e che dedica molto spazio a "A Passion Play":
"Dunque, cosa ha a che fare tutto questo con il Bene e il Male di cui parlava Anderson? Intanto sono presenti
sia Dio che Lucifero, dunque Ronnie sembrerebbe una metafora dell'umanità. Non accetta né Dio né
Satana: Here's the everlasting rub: neither am I good nor bad / I'd give up my halo for a horn and the horn for
the hat I once had (ecco l'eterna difficoltà: non sono né buono né cattivo / baratterei la
mia aureola per le corna e le corna per il cappello che avevo un tempo). L'Uomo non è totalmente buono né
totalmente cattivo, ma entrambe le cose. Questo paradosso permea le nostre esistenze. I tre album precedenti erano
degli attacchi alla società moderna. Questo album tralascia questo aspetto (sebbene Dio abbia un ufficio)
a favore di un commento più ampio su un aspetto della natura umana".
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DA ALEISTER CROWLEY A PASSION PLAY
Edward Alexander Crowley (Lemington Spa, 1875 - Hastings, 1947), meglio noto con lo pseudonimo
di Aleister Crowley, fu un personaggio perlomeno singolare. I suoi genitori, membri di una severa setta integralista
cristiana (i Plymouth Brothers) lo avviarono giovanissimo ad una rigida educazione religiosa. Aleister ne ricavò
una profonda conoscenza biblica e un altrettanto profondo disgusto per il cristianesimo. Frequentò il Trinity
College di Cambridge, che abbandonò poco prima di conseguire la laurea; in realtà, Crowley fu cacciato
perché sorpreso in camera con un numero imprecisato di studentesse. Risale ad allora il suo primo contatto
con la tradizione esoterica anglosassone. Un amico lo presentò a George Cecil Jones, affiliato all'ordine
ermetico della Golden Dawn, una società occulta che vantava tra i suoi membri personaggi del calibro di
W. B. Yeats e Dion Fortune. Nella Golden Dawn Crowley studiò l'alchimia, i tarocchi, l'astrologia, la qabalah
ed altre materie legate alla magia e all'ermetismo. Dal momento del suo ingresso nella Golden Dawn (1898), Crowley
bruciò le tappe della gerarchia dell'ordine. Lo scisma interno all'associazione (1900) interruppe la sua
ascesa lungo la scala gerarchica; Crowley decise allora di lasciare l'Inghilterra per un lungo viaggio in oriente,
intenzionato a cercare una via di fusione tra la tradizione magica occidentale e il misticismo orientale. Nel 1903
sposa Rose Kelly e si reca assieme a lei al Cairo. Durante una trance, la moglie dichiara di essere in contatto
con la divinità egizia Horus. A quel punto, comincia il bello. Crowley sostiene che, con una sorta di "scrittura
automatica", il dio gli ha dettato il Libro della legge di Thelema (gr.=volontà). Una legge certamente
invitante, dal momento che il suo precetto fondamentale è "Fai quello che vuoi". Chiunque abbia
letto Rabelais può cominciare a sghignazzare (in un episodio del Pantagruel si racconta di un'abbazia di
Thelema, sul cui frontale sta scritto, appunto, "Fai quello che ti pare"). Comunque, il Nostro dichiara
aperta l'era di Horus (1904) e gira il mondo entrando a far parte di tutte le associazioni magiche che può
e nel 1906, assieme a George Cecil Jones (ex capo della Golden Dawn), ne fonda una nuova, la Stella d'Argento (Astrum
Argentium). Nel frattempo, ne fa di tutti i colori. A parte gli episodi più pittoreschi, come girare per
Londra vestito da Riccardo III con tanto di mantello e spadone o sostenere di essere riuscito a portare via la
stele di Rosetta dal British Museum ipnotizzando i guardiani, apre ovunque le sue abbazie, dove si praticavano
orge sfrenate e si assumevano droghe in quantità massive. Un suo allievo, il pittore Austin Osman Spare,
muore di overdose, e la sifilide è diffusa tra i suoi adepti come il raffreddore. Per un breve periodo Crowley
fu anche in Italia, a Cefalù, dove fondò un'abbazia di Thelema; le lamentele della popolazione arrivarono
fino a Mussolini, che lo cacciò quasi subito (un resoconto romanzato del soggiorno siciliano di Aleister
Crowley è fornito dal libro di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa). Non si può davvero dire
che in Inghilterra, dove era decisamente famoso, incontrò maggior fortuna. La sua vita dissoluta, condotta
all'insegna dell'eccesso e del libertinaggio gli valsero il titolo di "uomo più perverso che abbia
mai calpestato il suolo del Regno Unito" per bocca dello stesso Churchill. Si è sempre sostenuto (in
Italia, Giorgio Galli, La politica e i maghi) che Crowley facesse l'agente segreto di Sua Maestà britannica,
avendo la possibilità di infiltrarsi nei circoli esoterici che gravitavano attorno a Hitler; questa tesi
non è però mai stata provata. Tornato in Inghilterra, prese possesso del castello di Boleskine, sul
Loch Ness (attuale residenza di Jimmy Page). Morì ad Hastings il 1 dicembre 1947, dove è ancora sepolto,
ovviamente in terra sconsacrata.?
?Crowley scrisse moltissimo; il suo libro più importante è Magick (Parigi, 1929), dove sono descritti
i rituali e i fondamenti del suo sistema magico. Qui mi riferisco sempre all'edizione italiana (Astrolabio, Roma,
1976).
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Anderson cita per la prima volta Crowley nel St. Cleve Chronicle (il giornale-copertina di
Thick as a brick), tra i programmi televisivi a pagina 6. Quella nota, in perfetta sintonia con il "giornale",
è decisamente umoristica (Crowley va in onda di mattina presto con "Biblical Studies"). In A Passion
play il riferimento è invece nel testo, anche se non esplicito.
Verso l'inizio dell'Atto IV, con Magus Perdé, incontriamo il mondo della magia. Questo personaggio enigmatico
(nella traduzione di Tagliaferro si avanzano varie ipotesi sulla sua identità) è in realtà
un mago speciale. Nel sistema magico di Crowley "Magus" è un grado altissimo, che solo pochi individui
possono raggiungere (il secondo in ordine di importanza dopo "Ipsissimus"); si tratta quindi di un mago
potente, in grado di realizzare qualunque incantesimo. Magus Perdé sta per impegnarsi in un rituale quando
il protagonista lo chiama: "Magus Perdé, take your hand from off the chain". La catena (chain)
un attrezzo indispensabile alla magia crowleiana, è fatta con 333 anelli di ferro dolce e viene posta attorno
al collo del mago, come una collana (Magick, pp.78-80). Magus Perdé la sta prendendo quando viene distratto
da Ronnie Pilgrim. Questi vuole essere riportato in vita, e suggerisce al Magus il sistema per farlo, tentandolo
con la prospettiva di compiere un esperimento del tutto inusitato e potentissimo: "Break the circle / stretch
the line / call upon the devil. Bring / the gods / the god's own fire. / In the conflict revel". Qui i riferimenti
a Crowley si sprecano: il mago opera il rituale all'interno di un cerchio tracciato a terra (Magick, 71-4), all'interno
del quale c'è un piccolo altare su cui poggia un incensiere che reca il Fuoco magico (Magick, 149). Il cerchio
ha una funzione di protezione: "quando […] è tracciato e consacrato, il Mago non deve uscirne, e neppure
sporgersi fuori di esso, per non venire distrutto dalle forze ostili che stanno all'esterno" (Magick, 71).
Ronnie Pilgrim dice invece a Magus Perdé di stravolgere il rito: spezzare il cerchio e far entrare il diavolo,
porgendo agli dèi il fuoco divino (l'incensiere) e godendosi lo spettacolo della lotta tra le forze elementari.
Il mago ci prova subito, e al termine del rituale pronuncia l'ultimo incantesimo: "Man / son of man /buy the
flame of ever-life (yours to breath and breath the pain of living): living BE!". All'istante, Ronnie Pilgrim
compare, con un grido di gioia ("Here am I!"). Il rituale è riuscito, ma a spese di Magus Perdé
che non viene più nominato. Una volta spezzato, il cerchio non ha più potuto proteggerlo dalle forze
caotiche, che lo distruggono. Dopo tutto, Crowley aveva visto giusto, e il cerchio non doveva essere rotto. Ma
forse Ronnie Pilgrim poteva tornare in vita solo approfittando di un mago, in fondo, un po' fessacchiotto.
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PER LA COLLANA "POCKET ESSENTIALS"
E' STATA PUBBLICATA UNA GUIDA AI TULL AGILE E PRECISA A CUI HA COLLABORATO LO STESSO ANDERSON. MA E' SOLO IN INGLESE... (di Aldo Tagliaferro)
Quando i Jethro Tull erano una delle più grandi band del mondo, nessuno pensò
di dedicare un libro a Anderson & soci. Giovanni Zito fu, in questo senso, un autentico precursore pur non
disponendo dei mezzi necessari per una pubblicazione in grande stile. Oggi, forse per la patina di importanza che
riveste tutte le storie che durano nel tempo, è tutto un proliferare di libri e libretti è al lavoro
da tempo per organizzare il tour estivo 2003 della band in Italia. L'ultimo esempio è la mini-guida "Jethro
Tull" pubblicata da una casa inglese ("Pocket Essentials") specializzata in volumetti agili ed economici
che riguardano un po' di tutto, dal cinema alla musica alla letteratura e l'arte.
Pubblicato lo scorso settembre, il volume dedicato ai Tull è stato curato da Raymond Benson, autore eclettico
noto per alcuni romanzi e sceneggiature di James Bond nonché direttore di spettacoli teatrali. La sua capacità
di condensare tutto quello che bisogna conoscere sui Jethro in meno di cento pagine è davvero stupefacente,
peccato che il libro sia solamente in inglese.
Veniamo ai contenuti. Il volume, dopo una densa introduzione, segue cronologicamente la storia della band dividendola
in cinque capitoli: I primi anni (1947-1967), La nascita dei Jethro Tull (1968-1970), Il supergruppo (1971-1976),
Allevatore di salmoni e rock-star (1977-1979), Nuova decade, nuove direzioni (1980-1990), La leggenda continua
(1991-2002). Segue poi una scheda completa (e molto dettagliata) con album, singoli, video, libri, produzione solista,
fan club ecc. Il racconto è per lo più incentrato sulla figura di Ian Anderson (che Benson, chiaramente,
ammira) e si avvale di alcune conversazioni fatte dall'autore con il leader della band. Benson ne ha fatto buon
uso e alterna la storia, costruita soprattutto sugli album, con alcuni giudizi spesso azzeccati. Anche se mi dissocio
dal suo voto (1 su 5) a Stormwatch, di cui giudica noiose Dark Ages e Flying Dutchman. Ma il mondo dei Tull è
bello per questo. Ogni album riceve un voto da 1 (che però, specifica l'autore, non significa "brutto"
perché i Tull non hanno fatto dischi brutti) a 5, che si meritano - fra gli altri - Stand Up, Aqualung,
Thick as a Brick, Litp, Songs from the Wood, Roots to Branches, Divinities.
SCHEDA - Raymond Benson, Jethro Tull, an essential guide to the legend of Jethro Tull. Pocket Essentials, settembre
2002, prezzo 3,99 sterline. Per info: www.pocketessential.com (tel 0044 1582 761264/ fax 0044 1582 712244).
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